SHAKESPEARE: Macbeth e i dottori

Partiamo da un libro molto caro alla famiglia di Shakespeare così come a molte altre famiglie. È di un dottore e nella pagina iniziale leggiamo questo:

Osservazioni scelte circa corpi inglesi o cure, sia empiriche che storiche, compiute su persone molto eminenti affetti da malattie disperate, scritte per primo in latino dal signor John Hall, fisico che vive a Stratford-upon-Avon, nel Warwickshire dove era molto famoso, così come nella contea vicina; osservazioni ora tradotte in inglese”.

John Hall era il genero di Shakespeare. Una della cure da lui menzionate nel suo libro fu proprio messa in pratica sulla moglie Susanna, figlia di Shakespeare. È il caso numero 19 all’interno del libro:

La signora Hall di Stratfrod, mia moglie, miserabilmente tormentata da una colica è stata curata come segue: attraverso alcune iniezioni abbiamo ottenuto due risultati. Il dolore continua ancora ma un poco mitigato; quindi ho provveduto a iniettare una dose maggiore di farmaco e questo l’ha liberata completamente dal dolore allo stomaco. Poi è stato applicato un impacco usato anche per il conte di Northampton per liberarlo da una colica.”

Quello che sta facendo Hall è mescolare tutti gli intrugli medici e produrre, per prima cosa, una bevanda e poi un clistere per purgare tutti i mali di sua moglie. Sostiene di aver agito nello stesso modo e con successo con il conte di Northampton. Questo passo ci dà un’idea di quanto la medicina delle erbe fosse cruciale nell’Inghilterra di Shakespeare. Quello di cui parla Hall è un intruglio di almeno 15 diverse erbe e spezie mescolate insieme: macis, cannella, cardamomo..sembra quasi una sorta di moderno curry. Sembra avere un certo effetto sulle coliche della moglie da un punto di vista fisico. Ma cosa dire della salute mentale? Poteva essere fatto qualcosa al riguardo? All’interno del “Breviario sulla salute” di Andrew Board vediamo una descrizione sulla natura della pazzia che deve essere ben distinta dal calore temporaneo della febbre e dall’insanità. Che rimedio era previsto per l’insanità? Egli risponde che c’è ben poco che si possa fare. Una cosa è quello di mettere il paziente in una camera dova non possa fare male a se stesso o ad altri. Dovrebbe essere una stanza dove non ci sono dipinti o immagini alle pareti per non infiammare ancora di più l’immaginazione del paziente. Verso la fine del Macbeth, Lady Macbeth, così forte e determinata la notte dell’omicidio, è diventata un guscio vuoto, un’ombra della donna che è stata. È perseguitata dalla memoria dell’omicidio. È famosa la scena in cui arriva sonnambula, torcendosi le mani, cercando di togliersi di dosso il sangue. Ma non può fare nulla perché quel sangue non è reale. È solo nella sua immaginazione.

MACBETH — Dottore coma sta la mia paziente?..

MEDICO —Non poi così malata, mio signore;
è soltanto turbata di continuo
da non so che fantasie ossessive
che le impediscono di riposare.

MACBETH — Curala, allora, di questo, e guariscila!
Non sai curare una mente malata?
Non sai tu sradicarle dal cervello
una pena che vi sta abbarbicata
per mezzo di qualche dolce antidoto
che ridoni l’oblio, nettargli il petto
da quel greve, pericoloso ingombro
che la turba e le appesantisce il cuore?

MEDICO — Queste sono affezioni che il paziente
si deve amministrare da se stesso.

MACBETH — Gettala ai cani, allora, la tua scienza!
Non voglio più saperne.

Qui Macbeth sta parlando di tutte le cure fisiche che John All usa già per le coliche. Strappare qualcosa dal corpo, annullare un malessere, applicare un antidoto, pulire il petto sono tutte cure fisiche che possono essere messe in pratica per una colica, ma possono essere applicate anche ai disturbi mentali? Chiaramente non è possibile. C’è un limite a quello che la medicina può fare.

È molto interessante che in Macbeth e in un altro paio di opere scritte all’incirca nello stesso periodo, poco dopo il matrimonio tra la figlia di Shakespeare e John Hall, Shakespeare sia così interessato ai dottori e alla possibilità che la salute sia ristorata. Ma nel caso della malattia di Lady Macbeth, il dottore non è sufficiente. Poco dopo il colloquio tra il marito e il dottore, lei muore. Non sappiamo se sia per un suicidio o quello che realmente sia accaduto.

La risposta di Macbeth è molto quieta:

SEYTON — È morta la regina, monsignore.

MACBETH — Doveva pur morire, presto o tardi;
il momento doveva pur venire
di udir questa parola…
Domani, e poi domani, e poi domani,
il tempo striscia, un giorno dopo l’altro,
a passetti, fino all’estrema sillaba
del discorso assegnato; e i nostri ieri
saran tutti serviti
a rischiarar la via verso la morte
a dei pazzi. Breve candela, spegniti!
La vita è solo un’ombra che cammina,
un povero attorello sussiegoso
che si dimena sopra un palcoscenico
per il tempo assegnato alla sua parte,
e poi di lui nessuno udrà più nulla:
è un racconto narrato da un idiota,
pieno di grida, strepiti, furori,
del tutto privi di significato!

Egli paragona la vita umana a un povero attore che si affanna sopra il palco e del quale tutti si dimenticheranno. Macbeth è diventato flemmatico, nonostante anch’egli sia andato molto vicino alla morte.

Quello che si evince da questo passaggio è che, conoscendo un poco della medicina del tempo di Shakespeare e conoscendo un poco delle credenze magiche, possiamo vedere la complessità del modo in cui, nel Macbeth, Shakespeare esplora la questione di ciò che è reale e ciò che è immaginario e, di certo, la domanda più ampia che ci porta a paragonare la vita a una recita. Siamo tutti povero attori che dibattono sul palco: le streghe sono reali? La spada è reale? È una febbre momentanea o pazzia vera? Il fantasma di Banquo è vero o immaginario?

Alla fine, l’intera opera è artefatta; qualcosa di immaginario; qualcosa di inventato. È una finzione, ma una finzione che ci svela verità profonde sulla natura umana e verità profonde che toccano da vicino re Giacomo, seduto di certo nel pubblico alle rappresentazioni teatrali di corte.

SHAKESPEARE: sanità o pazzia?

Realtà o immaginazione? Vediamo, all’inizio, Macbeth e Banquo domandarselo a proposito delle tre streghe, ma attraverso l’opera, la stessa domanda ricorre più volte. In un’altra scena troviamo Macbeth poco prima dell’uccisione di re Duncan. Egli è da solo e dice:

MACBETH —È un pugnale ch’io vedo innanzi a me
col manico ricolto alla mia mano?…
Qua, ch’io t’afferri!…No, non t’ho afferrato…
Eppure tu sei qui, mi stai davanti…
O non sei percettibile alla presa
come alla vista, immagine fatale?
O sei solo un pugnale immaginario,
un’allucinazione della mente,
d’un cervello sconvolto dalla febbre?
Ma io ti vedo, ed in forma palpabile,
quanto questo ch’ho in pugno, sguainato.

Egli poi “disegna” il suo vero pugnale:

MACBETH —E tu mi guidi lungo quella strada
che avevo già imboccato da me stesso
pronto ad usare un analogo arnese…
O gli occhi miei si son fatti zimbello
di tutti gli altri arnesi,
o la lor percezione è così intensa
che a questo punto li soverchia tutti:
perch’io t’ho qui, dinnanzi alla mia vista,
e sulla lama e sull’impugnatura
vedo del sangue che prima non c’era…
Ma no, che un tal cosa non esiste!

Nella sua fervida immaginazione, egli vede un pugnale che lo conduce alla stanza dove Duncan giace per ucciderlo. E mentre continua a pensarci, grandi quantità di sangue sembrano apparire sul pugnale. Per il suo fervido cervello, il pugnale immaginario è reale tanto quanto il pugnale che nel fodero. È una grande scena da recitare per un attore, un grande pezzo di psicologia.

Macbeth è una di quelle tragedie di Shakespeare in cui il personaggio principale è impegnato in molti monologhi, discorsi dove si trova solo sul palco con il pubblico, rivelandoci il suo stato mentale; e non ci sono dubbi sulla sua mente fervida e febbrile. È un bellissimo pezzo di teatro, ma possiamo comprenderlo al meglio conoscendo le teorie psicologiche e mediche del tempo di Shakespeare.

La teoria medica nell’Inghilterra elisabettiana ha le sue radici nei tempi antichi. I teorici antichi della Grecia e di Roma (tra cui Galeno) hanno esercitato enorme influenza nei secoli successivi. In particolare, la teoria che la psicologia umana e quindi la salute del corpo dipendessero dall’equilibrio tra gli umori corporei è un’idea che è sopravvissuta dall’antichità fino al tempo di Shakespeare e anche oltre.

La teoria è questa: il corpo consiste in un misto di quattro diversi fluidi corporei e questi sono associati a diversi stati d’animo. Se i fluidi sono pienamente in equilibrio, il corpo sarà in salute così come la psiche ma se nel corpo c’è disequilibrio, allora ci si ammalerà.

Tra le conoscenze di base di un dottore elisabettiano c’era sicuramente l’arte di curare il sangue, prelevarlo dal paziente e usare anche le sanguisughe per aiutare il processo di guarigione. Un medico doveva anche essere esperto nell’applicazione di emetici, con lo scopo di espellere i fluidi nocivi dal corpo.

I quattro umori erano associati a quattro stati d’animo. C’era la malinconia che poteva portare alla depressione e fino al suicidio. Lo vediamo nel grande personaggio di Amleto, grande esempio di personaggio malinconico. Poi c’è la collera. Collerico è l’uomo adirato, la persona che vive di passioni forti che potrebbero facilmente scappare di mano. Viene associato al sangue caldo. Poi c’era il sanguigno che guarda il lato positivo della cose per migliorarsi sempre. Era una buona qualità essere sanguigno.C’era poi la flemma. Il flemmatico era freddo, imperturbabile e posato. Avere equilibrio tra tutti gli elementi era una buona cosa. Averne troppo di uno piuttosto di un altro poteva essere un problema.

Quindi Macbeth, quando parla del suo pugnale, parla in particolare della sua mente oppressa dal calore e, spesso, nel corso dell’opera si parla di febbre. Quando Duncan è nel letto di morte, Macbeth dice:

Duncan è nel letto di morte; dopo una vita piena di febbre finalmente può riposare bene”.

Se i fluidi corporei diventano troppo caldi, si possono avere dei problemi. Quando Macbeth  riconosce il “calore” della sua ambizione, quella di diventare re egli stesso, riconosce anche che il surriscaldamento del suo sangue lo sta portando alla visione di questi pugnali, forse le streghe stesse sono visioni che non esistono.

breviario saluteIn un libro intitolato “Breviario sulla salute”, di un certo dottor Andrew Boorde, originariamente pubblicato nel 1150 e frequentemente ristampato al tempo di Shakespeare, impariamo nel capitolo 220 che c’è una distinzione tra il tipo di fervore che sente Macbeth e la vera pazzia. Nell’antica Grecia era chiamata ‘mania’ e in latino era detta ‘insania’ o ‘furore’ da cui discendono le parole inglesi di insanità (insanity) e furore (fury).

In inglese, è chiamata pazzia, come una bestia selvaggia. Ed è diversa dal fervore che è una sorta di febbre”.

Quindi Macbeth soffre di una febbre momentanea, un fervore momentaneo, ma non c’è alcun dubbio che questo lo sta allontanando dalla sua sanità mentale. Anche quando vede il fantasma di Banquo mentre nessun’altro lo vede, è ancora affetto da questo furore e non da vera pazzia.

Una cosa interessante circa la struttura drammatica di Macbeth è che, a partire da dopo l’assassinio, lady Macbeth è del tipo flemmatico. È calma e pratica; riesce spesso a calmare il consorte, dicendogli di non essere così infervorato. C’è del sangue sulle loro mani ed ella dice:

Ci basterà un po’ d’acqua a mondarci di questa nostra azione”.

Macbeth risponde di no, no e ancora no; tutta l’acqua di un oceano non potrebbe mai pulirli da qual sangue.

Mentre l’opera prosegue, marito e moglie prendono direzioni diverse. Macbeth diventa più concentrato anche se realizza che sta perdendo il suo potere mentre lady Macbeth inizia a mostrare i primi segnali di pazzia vera, di insanità. All’interno del “Breviario sulla salute” vengono forniti rimedi circa la pazzia di cui sembra soffrire lady Macbeth.

SHAKESPEARE: la malefica radice

Abbiamo lasciato Macbeth e Banquo di fronte alle streghe e alle loro profezie. Quando ripartono, hanno questo scambio:

BANQUO —Bolle d’aria ha la terra, come l’acqua.
Tali eran queste. Dove son svanite?

MACBETH — Nell’aria, e ciò che d’esse aveva corpo
s’è dissolto, come respiro al vento.
Come vorrei che fossero restate!

BANQUO —Ma davvero eran qui, davanti a noi,
quelle cose di cui stiamo parlando?
O non avremmo noi forse mangiato
una qualche malefica radice
che ci tien prigioniera la ragione?

MACBETH —Saranno re i tuoi figli…

BANQUO — E re tu stesso, ed anche Thane di Cawdor…
Non è così che han detto quelle tre?

MACBETH — Così, stesse parole, stesso accento.
Ma chi è che ci viene adesso incontro?

Appena dopo questo dialogo, un messaggero arriva con la notizia che Macbeth è stato nominato Thane di Cawdor perchè il suo predecessore è stato dichiarato colpevole di tradimento – ha combattuto a fianco del nemico durante la guerra e Macbeth ha preso il titolo. Non si sa come Shakespeare abbia reso sul palcoscenico la sparizione delle streghe, forse attraverso una botola segreta. Chiaramente c’è l’idea di una sparizione immediata, per aggiungere mistero e magia alla scena.

Il verso su cui focalizzare l’attenzione è quello di Banquo che recita:

“O non avremmo noi forse mangiato una qualche malefica radice che ci tien prigioniera la ragione?”

Hanno già chiesto alle streghe se fossero reali o creature fantastiche. La situazione che hanno appena vissuto è realtà o frutto dell’immaginazione? È quello che Banquo cerca di capire: l’idea che la ragione sia prigioniera, l’idea di aver visto qualcosa di irrazionale. Ma cosa intende con radice malefica? Una radice, un’erba, una specie di pianta. La frase ci porta all’assoluta centralità delle piante, e all’associazione con le piante al tempo di Shakespeare.

Dello stesso periodo è il Gerard’s Herbal. È il più grande, bello e completo esempio di erbario, una raccolta di tutte le piante note nel periodo di Shakespeare e delle loro qualità. Per ogni specie, c’è un disegno, il nome, anche quello latino, il luogo dove cresce, il periodo della fioritura, i diversi nomi con cui può essere chiamata, la temperatura – l’idea che le piante siano fredde o calde è concetto un po’ particolare ed è collegato alla “teoria degli umori” di cui parlerò più avanti. Inoltre di ogni specie sono elencate le virtù. Con virtù erano intese le cose che si potevano fare con quella pianta.

La medicina, a quel tempo, era fondamentalmente basata sulle erbe. I dottori raccoglievano le erbe e le mescolavano. Lavoravano a stretto contatto con gli speziali, il cui lavoro era creare i farmaci, come li chiameremmo noi oggi. Tutto si basava sulla miscela di piante e sulla tradizione e sulle leggende ma anche sull’esperienza di come le persone reagivano ai diversi miscugli. Questa saggezza ha attraversato il tempo rimanendo immutata per secoli.

giusquiamo-neroOggi, gli studiosi dibattono su quale pianta sia riferito il verso di Banquo quando parla di radice malefica. Alcune scuole di pensiero credono possa trattarsi della cicuta, ma la maggior parte pensano che Banquo si stia riferendo alla pianta chiamata giusquiamo, in particolare al giusquiamo nero. L’erbario Gerard ci dice che può essere usata per mitigare il dolore, ma ci da anche un avvertimento: le foglie, i semi e il succo, se presi incautamente, possono provocare sonni agitati simili all’ubriachezza.

In un certo senso, quello che Banquo sta dicendo, è come se fossero in overdose di giusquiamo nero e avessero avuto delle allucinazioni. Forse le streghe non esistono davvero. L’idea che la loro mente possa essere disturbata e che il dottore, o l’esperto di erbe, possa non essere in grado di aiutarli è qualcosa di ricorrente in tutto il Macbeth. La radice malefica è solo la prima di una serie di referenze alla medicina e al disturbo mentale.

SHAKESPEARE: le fatidiche sorelle

Il Macbeth ha una delle più spettacolari aperture tra tutte le opere di Shakespeare.

“Quando noi tre ci rivedremo ancora? Con tuono, lampo o pioggia?”

Queste sono le parole delle streghe o fatidiche sorelle. È un’azione incredibile da parte di Shakespeare, dare vita allo spirito del male e dell’oscurità in teatro, teatro che non poteva di certo rimanere al buio. Il drammaturgo scrive per un teatro aperto, quindi sta all’immaginazione del pubblico creare la notte, l’oscurità.
Le streghe, le antiche paure, le superstizioni sono le stesse, che in minima parte, sopravvivono nella nostra cultura di Halloween. Quello che dobbiamo ricordare, al tempo di Shakespeare, è che tutti credevano nella magia. Tutti credevano che ci fosse un altro mondo, un mondo di angeli, demoni e molte persone credevano che le streghe lavorassero a fianco del diavolo e alle forze del male. Ma è più complicato di quel che sembra.

Una delle cose straordinarie dell’età di Shakespeare, e forse una delle cose che rende i suoi lavori così potenti e li fa durare attraverso il tempo, è che scrive in un momento di transizione tra lholinshede vecchie e le nuove credenze. Quindi, anche se le antiche superstizioni sono ancora vive, soprattutto nelle campagne, nuove idee e un nuovo razionalismo iniziano a prendere piede. In molti modi, le opere di Shakespeare si inseriscono nel dibattito tra vecchie e nuove idee, il dibattito sulla stregoneria feroce come pochi altri.
Come per la maggior parte dei suoi lavori, il Macbeth di Shakespeare non è una storia inventata da lui; è basata su un libro di storia. Durante la vita di Shakespeare, il regime Tudor è molto interessato alla registrazione della storia della nazione, e molte cronache storiche diverse furono raccolte in un grande libro intitolato “Cronache di Inghilterra, Scozia e Irlanda”. L’editore era Rafael Holinshed. A sinistra c’è la “Storia di Scozia”, parte essenziale del progetto di Holinshed. Da queste cronache, Shakespeare prende spunto per parlare della storia inglese e scozzese. Le sue opere storiche, come Enrico IV, Enrico Y e Riccardo III, fanno tutte riferimento alle cronache Holinshed, e il suo lavoro scozzese, Macbeth, prende spunto dalla “Storia di Scozia” di Holinshed.

fatidiche sorelleQuindi, cosa sono le Fatidiche Sorelle o Streghe nelle fonti di cui si serve Shakespeare? È qualcosa di sorprendente se guardiamo a un’illustrazione delle tre sorelle presente nelle cronache Holinshed perché non assomigliano per niente alla nostra idea di streghe. Holinshed ha una nota a margine che recita così: “la profezia delle tre donne si supponga siano le tre fatidiche sorelle o fate”.
Egli descrive come Macbeth e Banquo stiano cavalcando verso Forres quando “incontrano tre donne di aspetto strano e fiabesco, somiglianti a creature di un mondo antico”. Poi le tre donne recitano le loro tre profezie:

1ª STREGA —Salute a te, Macbeth, Thane di Glamis!
2ª STREGA — Salute a te, Macbeth, Thane di Cawdor!
3ª STREGA — Salute a te, Macbeth, futuro re!

Shakespeare lo legge nelle cronache e ovviamente vede il potenziale drammatico e teatrale di queste tre figure. Eppure l’immagine che vede è abbastanza strana nonostante le tre signore elegantemente vestite, di certo lontane dall’idea di strega. Holinshed le descrive come creature di un mondo antico, e questo suggerisce l’idea classica della Sibilla, la vecchia profetessa.
Le Sibille, nei tempi classici, erano fortemente rispettate; si diceva fossero la voce degli dei. Le fatidiche sorelle di Shakespeare sono molto diverse; il loro comportamento è più conforme all’idea vernacolare (volgare) di una strega.
Prima di incontrare Macbeth, le sentiamo scherzare su ciò che stanno per fare.

La prima strega dice :

“È il dito pollice d’un timoniere
naufragato nel suo ritorno a casa”

A questo punto si sente il rumore di tamburi, Macbeth sta arrivando, ma prima che entri sul palco le tre sorelle danzano in cerchio, un cerchio magico e dicono:

“Così le tre fatidiche sorelle
la mano nella mano,
per mare e terra van girovagando,
in giro, giro tondo,
tre volte intorno a te,
tre volte intorno a me,
e per far nove ancor tre volte tre”.
Silenzio!… Il sortilegio s’è compiuto!”

Tre è, ovviamente, in numero della stregoneria; tre volte tre è doppiamente magico.
Poi Macbeth arriva:

“Un giorno brutto e bello come questo
non l’avevo mai visto”

Il Macbeth è un’opera piena di linguaggio con doppio significato, paradossi e opposti; cose buone e cose cattive; gli opposti si uniscono insieme.
Banquo è il primo a notare le tre sorelle, ma la sua descrizione dei loro abiti è molto diversa da quella che abbiamo visto nell’illustrazione delle Cronache Holinshed.
Banquo dice:

“Oh, diamine, che esseri son quelli,
così grinzi e selvatici d’aspetto
da non avere alcuna somiglianza
con gli esseri che vivon sulla terra
sulla quale si trovan tuttavia?”

Lo stesso Banquo poi si rivolge direttamente alle streghe:

“Siete viventi? Siete voi qualcosa
cui si possa rivolgere domanda?
Sembra che abbiate inteso,
se ciascuna s’è posto il dito scarno
con ratta mossa sulle labbra vizze.
Alla vista, dovreste essere femmine,
ma quelle vostre barbe
mi fan pensare che non siete tali.”

Poi è il turno di Macbeth che recita così:

“Parlate se potete. Che cosa siete?”

Si rivolge a loro chiedendo cosa sono e non chi sono.
C’è molto fascino in questa opera, così come in molte altre, tra le cose interiori e le cose esteriori. L’apparenza esteriore è vera o c’è della fantasia? Le creature sono frutto dell’immaginazione e non della realtà?
Sono domande che lasciano nell’incertezza.
Non c’è dubbio che la descrizione delle sorelle qui sia quella di donne barbute, vecchie, a cavallo della scopa, che tagliano le dita e con labbra severe. Shakespeare modifica le eleganti figure dell’illustrazione in streghe volgari, del popolo. Perché lo fa? Perché la stregoneria è un tema chiave nel Macbeth? C’è una risposta molto semplice ed è che il Macbeth è una della opere di Shakespeare scritta agli inizi del regno di re Giacomo.
Circa a metà della carriera di Shakespeare, la regina Elisabetta muore. Muore senza un erede, ma re Giacomo di Scozia prende il trono. È già re di Scozia. Ora diventa Giacomo VI di Scozia e Giacomo I di Inghilterra e porta con se non solo la corte scozzese ma tutta una serie di preoccupazioni che Shakespeare fa sue.
Re Giacomo, per ragioni che vedremo, è molto interessato alla stregoneria ma anche alla medicina e alle tecniche di guarigione. Ugualmente, come re di Scozia che diventa re di Inghilterra, è interessato ai rapporti tra le due nazioni e all’idea di Britannia unita. Questi sono i temi di cui Shakespeare si occupa nel Macbeth.
Una delle prime cose che fa re Giacomo dopo essere diventato re di Inghilterra, è assumersi il patrocinio diretto della compagnia teatrale di Shakespeare. Sotto la regina Elisabetta erano stati “Gli Uomini del Ciambellano”. Il lord ciambellano, l’ufficiale responsabile dell’intrattenimento a corte, era sempre stato il patrono della compagnia. Con re Giacomo, diventano “Gli Uomini del Re” e vengono invitati ad esibirsi a corte molto più frequentemente. Così quando Shakespeare scrive il Macbeth, sa di dover andare in scena anche a corte di fronte a re Giacomo e questo lo porta a una profonda riflessione sulle idee del re, ma anche a stare attento a non dare alcuna sorta si giudizio su di esse.