SHAKESPEARE: Prospero, John Dee e la magia

Non è solo la musica ad essere simbolo di una speciale armonia tra l’essere umano e la natura – può esserlo anche la magia. Quando pensiamo alla magia oggi, mettendo da parte i giochi di prestigio e intrattenimento, forse pensiamo subito alla magia nera, all’idea di strega o stregone, in contatto con le forze del male. Ai tempi di Shakespeare, vi era la convinzione che ci fosse sia la magia nera che quella bianca; le persone credevano nelle streghe, nella possibilità di poter evocare il diavolo, come il dottor Faust fa nella famosa opera di Christopher Marlowe, ma credevano anche nella possibilità di una sorta di magia filosofica, una magia bianca, in cui la grande mente umana poteva lavorare in unione alle forze della natura al fine di compiere il bene.

Questo è esattamente il modo in cui Prospero concepisce se stesso. Veniamo a sapere all’inizio dell’opera che, mentre è duca di Milano, ha passato moltissimo tempo nella sua biblioteca a studiare libri di magia. In molti aspetti, è simili a Faust; ma mentre Faust è guidato da forze oscure, Prospero impara ad usare la magia per ottenere effetti armoniosi.

Quindi l’opera inizia con una tempesta non del tutto naturale perché è Prospero ad averla evocata. Ci dice che ha il potere – grazie al suo libro magico, al suo bastone e al cerchio – di creare una tempesta o di placarla. In vari momenti dell’opera, lo vediamo impegnarsi ed esercitarsi con la magia. Sentiamo parlare di come ha liberato Ariel da una pianta e imprigionato Calibano nella roccia. Lo vediamo causare una sorta di rallentamento del tempo quando alcune persone stanno complottando contro di lui e vengono intrappolate in un boschetto.

Alla fine dell’opera, Prospero rinuncia alla sua magia. Comprende di averla usata per ottenere vendetta dei suoi nemici, ma capisce che è più importante affrontarli dal punto di vista umano e perdonarli. È curioso notare come non sia un altro essere umano a insegnargli l’importanza del perdono ma Ariel, lo spirito.

Prospero si rivolge ad Ariel con queste parole:

“E così a me;
sento che accade adesso;
ché, se tu che non sei che un soffio d’aria
sei toccato da tanta commozione,
io, che appartengo alla loro stessa specie,
e che provo le lor stesse passioni,
non mi dovrò sentire più di te
mosso a pietà di questo loro stato?
Anche se m’han ferito nel profondo
coi gravissimi torti che m’han fatto,
faccio che la ragione in me prevalga
a nobilmente contrastar la collera;
ché perdonare è più nobile agire
che vendicarsi. Essi sono pentiti,
ed io non spingerò il mio castigo
più in là d’un semplice aggrottar di ciglia.
Va’ dunque a liberarli, Ariele, presto.
Vo’ romper gl’incantesimi,
restituire a ciascuno di loro
la perduta ragione, a far che tornino
nuovamente se stessi.”

Sta parlando di perdono. È meglio perdonare che vendicarsi. Preferisce rinunciare al suo desiderio di potere, alla sua magia.

Poi prosegue:

“Le tombe hanno svegliato, al mio comando,
i lor dormienti, aperti i lor coperchi,
e li han lasciati uscire,
sì potente si dimostrò finora
la mia magica arte.
Ma ora all’esercizio di tale arte
io faccio abiura, nell’altro chiedendo,
come ultimo servizio, che produrmi
qualche istante di musica celeste
perch’io possa raggiungere il mio scopo
d’agire sovra i sensi di coloro
cui questo aereo incanto è destinato;
poi spezzerò questa mia verga magica
e la seppellirò ben sotterra
e in mare scaglierò tutti i miei libri,
che vadano a sommergersi più in fondo
di quanto mai sia scenso uno scandaglio.”

Alla fine Prospero rimane semplicemente nudo e se stesso. Non c’è più l’aiuto della magia. È un’immagine straordinariamente potente. Inevitabilmente, ci troviamo a domandarci se il pubblico del tempo avrebbe potuto credere all’esistenza di un uomo come Prospero, un uomo con dei poteri magici – l’abilità di usare una saggezza soprannaturale per piegare le forze della natura, chiamare delle tempeste. Chi può davvero dire cosa pensasse il pubblico? Ma è certo che ci fossero una o due persone, nell’Inghilterra e nell’Europa di Shakespeare, con la reputazione di grandi maghi. Il più famoso tra i due era John Dee. Inizialmente, era l’astrologo ufficiale della regina Elisabetta. In seguito, ha lavorato anche per Rodolfo II, imperatore del Sacro Romano Impero. Era conosciuto in tutta Europa per la grande saggezza, la sua incredibile biblioteca e anche per i suoi poteri magici.

john deeQui c’è un’incisione che lo ritrae; si vede mentre tiene in mano un paio di compassi e un mappamondo. Ha le esatte fattezze con cui noi immaginiamo Prospero: barba lunga, un mantello simile a quello dei maghi, e un mappamondo che ci ricorda di come La Tempesta sia un lavoro globale, un’opera sui viaggi e la geografia. L’inscrizione sull’incisione descrive Dee come “il più famoso tra i matematici inglesi”.

La musica, la matematica, la magia sono sempre state strettamente correlate. C’è un modello quasi matematico-magico nella musica, nell’armonia delle sfere. La grande padronanza di Dee della musica e della matematica ha anche avuto un effetto pratico. Egli ha scritto un trattato molto importante sulla navigazione e anche un trattato sulla riforma del calendario – ovviamente due opere che hanno a che fare con i numeri. Il trattato sulla navigazione, la sua traduzione di uno dei più grandi testi di matematica della Grecia classica, “Matematica” di Euclide, include alcune prefazioni dove parla della possibilità degli inglesi, attraverso la loro grande conoscenza della natura, di stabilire un impero. L’espressione “Impero Britannico” potrebbe trarre origine proprio da questi trattati di Dee. Ora, non si sta suggerendo che Prospero sia la versione teatrale di John Dee. Quello che emerge però è che Dee fosse una celebrità, un personaggio molto noto. La gente conosceva i suoi straordinari poteri mentali. Conosceva i legami tra magia, navigazione, esplorazione e potere.

Dee è ben presente nel mondo di Shakespeare, rimane sullo sfondo dell’opera, in perfetta analogia con Prospero. Ci aiuta a comprendere che la magia bianca di Prospero è veramente presa sul serio dal pubblico di Shakespeare.

Ma allo stesso tempo, Shakespeare, che vede sempre entrambe le facce della questione, rompe facilmente la distinzione tra magia bianca e nera. Prospero oppone costantemente la sua magia a quella della madre di Calibano, Sicorace, esiliata prima di lui sull’isola. Prospero considera quella della donna una magia nera, un male. Ma Sicorace e Prospero, in qualche modo, hanno gli stessi poteri.

Quando Prospero tiene il suo grande discorso sull’abbandonare la sua rude magia, alcune delle parole che usa, parlando dei suoi poteri magici, sono in realtà tradotte dalle “Metamorfosi” di Ovidio, autore che sappiamo ha influenzato moltissimo Shakespeare. Ma nel libro di Ovidio chi recita i versi che poi Prospero fa suoi? Non è un mago bianco, ma un mago nero. Non è un uomo di potere, come John Dee, ma qualcuno chiamato strega, una donna. È da Medea che vengono prese le parole di Prospero. Quindi, usando le parole di Medea, una strega, Prospero viene in un certo senso oscurato da Shakespeare con la sua grande oppositrice, Sicorace.

Il nostro giudizio di Prospero è questione di dibattito, di discussione. Per alcuni è una figura benigna, positiva. Per altri, è un elemento maligno. Forse lo stesso Prospero si rende conto di essere la causa della malvagità di Calibano:

“questa creatura delle tenebre,
la riconosco invece come mia.”

SHAKESPEARE: Cleopatra

Cleopatra, regina d’Egitto – bellissima, ricca, sensuale e carismatica. Ma come viene rappresentata sul palcocleopatra northscenico da Shakespeare? Sappiamo che per il personaggio di Antonio ha preso spunto da le Vite parallele di PLutarco, tradotto in inglese da North. Shakespeare ne avrà di certo posseduta una copia e il suo occhio sarà stato catturato dalla nota a margine nelle pagine dove viene descritta la donna e che dice:

“La meravigliosa sontuosità di Cleopatra, regina d’Egitto, mentre si reca da Antonio a Cidno”

Questo è il passaggio contenuto nel testo di Plutarco:

“La regina risaliva il fiume sopra una galea dalla poppa d’oro, che spiegava al vento vele di porpora. I remi d’argento eran mossi dai vogatori alla cadenza d’una dolcissima musica di cetre, di flauti e d’altri strumenti.

Cleopatra era assisa sopra un piccolo trono, sotto un padiglione intessuto d’oro. Sembrava veramente la dea Venere come la raffigurano gli statuari e i pittori. Ai lati, graziosi fanciulli lefacevano vento come amorini. Attorno a lei, damigelle che sembravan Grazie e Nereidi, mettevano in risalto lo splendore della regine.

Altre deliziose fanciulle erano al timone, al sartiame, alle corde. Un soave odore si effondeva fino alle rive perché la nave lasciava al suo passaggio una scìa di profumi. Due ali di folla accompagnavano dalle alzaie il remaggio della galera ed altra gente accorreva dalla città per vedere il meraviglioso arrivo della dea che veniva a fa visita a Dioniso. E tanta era la moltitudine di persone, che Antonio rimase solo sulla piazza del mercato a dare udienza.”

Shakespeare deve aver pensato  che sarebbe stato magnifico rendere sul palco una scena come questa, dove centinaia di persone accorrono al fiume per vedere la lussuosa chiatta su cui Cleopatra appare ad Antonio in tutta la sua magnificenza. È ovvio che questa scena non poteva essere realizzata si un palco. Non era il mondo dei musical moderni e degli effetti tecnologici. Quindi Shakespeare doveva agire in modo diverso. E lo fa attraverso la poesia. Ha scritto pensando ad un palcoscenico spoglio con pochi oggetti di scena, arredamenti e scenari. Ha messo la massima immaginazione nelle parole. Prende spunto dal passaggio di Plutarco, e fa recitare parole meravigliose a Domizio Enobarbo, grande amico di Antonio. Da notare come Shakespeare metta nel testo qualcosa di assolutamente originale, trasformando la prosa in vera poesia:

La galea su cui ella sedeva
come un trono brunito ardea sull’acqua;
la poppa era tutt’oro martellato,
di porpora le vele, e un tal profumo
ne esalava per l’aria tutt’intorno,
da far languir d’amore i venticelli;
i remi eran d’argento,
e tenevano il ritmo al suon di flauti,
e l’acqua smossa li seguiva rapida
come invaghita dalle lor palate

Abbiamo, quindi, gli stessi dettagli e gli stessi elementi: la poppa dorata, i profumi, i remi d’argento. C’è quasi l’idea che i venti e le onde si innamorino di Cleopatra. Questa è un’idea di Shakespeare e non di Plutarco.

Quanto alla sua persona,
superava qualsiasi descrizione:
era seduta sotto un baldacchino
di seta, tutto trapunto d’oro,
e offuscava l’immagine di Venere,
com’è rappresentata nei dipinti
dove vediamo che la fantasia
sopravanza di molto la natura:
ai due lati paffuti fanciulletti,
come tanti Cupidi sorridenti,
agitavan flabelli varipinti,
e pareva che il loro ventolio
infiammasse la sue morbide guance,
da loro setssi prima rinfrescate:
un bellissimo fare e poi disfare.”

Di nuovo Shakespeare riprende quasi alla lettera l’immagine di Plutarco: la regina seduta sotto un baldacchino di seta e oro e le vesti che la fanno assomigliare quasi alla dea Venere. Shakespeare immagina quasi l’aria che ammira e loda Cleopatra lasciando un vuoto intorno ad Antonio. È come se tutto il potere del trono imperiale sul quale Antonio siede fosse risucchiato dalla bellezza e dall’allure di Cleopatra.

Un poco più avanti, in Plutarco, c’è una nota a margine circa la bellezza della regina, in cui l’autore dice:

“La sua bellezza non era così superiore a quella di altre donne. Ma la sua compagnia e la sua conversazione erano così dolci che un uomo non poteva fare a meno di innamorarsi di lei”.

Quindi non è solo la bellezza fisica. Plutarco suggerisce che CLeopatra non sia poi così tanto bella. Ma il suo fascino, il suo modo di conversare conquistano tutti. Ed è per questo che, ogni volta, vediamo Antonio pensare di potersi allontanare da lei, tornare a Roma, tornare ai suoi impegni militari e politici. Ma il suo fascino, la sua saggezza, la sua sensualità lo riportano sempre indietro. L’uomo è completamente stregato da lei.

Nell’immagine di lei come la dea Venere, forse rivediamo il mito classico di Marte, dio della guerra, catturato in trappola dalla dea. La battaglia tra amore e guerra, desiderio e dovere, la sfera personale e quella politica è al centro di Antonio e Cleopatra.

SHAKESPEARE: il Plutarco di North e la vita di Marco Antonio

Shakespeare ha sempre osservato il mondo intorno a lui, le persone, gli avvenimenti politici dei suoi giorni, ma ha anche trascorso molto tempo leggendo. La sua educazione gli è sempre stata d’aiuto e, ogni volta che ne ha avuto l’opportunità, si è immerso nelle grandi storie del passato.

Il suo amico di scuola, Richard Field, è stato lo stampatore di una traduzione inglese di una grande collezione di biografie di personaggi di spicco della Grecia classica e di Roma. Era intitolata “Vite dei più nobili greci e romani” dello scrittore Plutarco. Noi conosciamo quest’opera con il titolo di “Vite parallele”. La versione inglese, che ha visto diverse edizioni, era di un certo Thomas North ed era tradotta da una versione francese. Questo è il testo al quale Shakespeare fa riferimento ogni volta che decide di mettere in scena un’opera ambientata nel mondo classico. Prima di tutto, c’è stato il Giulio Cesare nel 1599, la storia dell’assassinio del condottiero romano, della guerra civile che ne è seguita, della fondazione della repubblica romana.

Qualche anno dopo, agli inizi del regno di re Giacomo, Shakespeare torna a Plutarco e racconta la storia della vita di Marco Antonio e, in particolare, di ciò che accade quando incontra la regina d’Egitto, Cleopatra. Il pubblico di Shakespeare aveva già conosciuto la figura di Marco Antonio. È uno di coloro che pronuncia il grande discorso nel Giulio Cesare:

“Romani, amici, miei compatrioti, vogliate darmi orecchio.”

Antonio si è opposto a Bruto e Cassio che hanno assassinato Cesare. Quello che ne segue è una guerra civile – la battaglia di Filippi è l’apice del Giulio Cesare. Quindi, quando l’opera Antonio e Cleopatra inizia, Roma è governata da tre uomini, il triumvirato: Marco Antonio, Ottaviano e Lepido. Questa è la storia che Shakespeare porta in scena in Antonio e Cleopatra. Esistono diverse copie delle Vite di plutarco northPlutarco tradotte da North. Quello che è davvero interessante è che Plutarco racconta la storia dal punto di vista del grande eroe, il guerriero, il politico, il leader, ma Shakespeare non intitola la sua opera Marco Antonio. La chiama Antonio e Cleopatra. Da molto più peso a Cleopatra rispetto ad Antonio.

Shakespeare è sempre interessato al punto di vista delle donne. Infatti, la questione della mascolinità diventa centrale nell’opera.

L’impressione iniziale che si ha di Antonio è, comunque, quella di un grande guerriero. Le Vite di Plutarco raccontano le sue imprese belliche e Shakespeare le usa per presentarci il personaggio.

Verso la fine dell’opera, Cleopatra, dal momento che tutto sta andando male (ricordiamo che l’opera rimane comunque una tragedia), ripensa alla prima immagine che ha di Antonio, il valoroso eroe e questo è ciò che dice:

“Che ci fosse un imperatore Antonio
io l’ho sognato…Oh, poter fare ancora
un sogno come quello!
Vedere ancora un uomo come quello! […]
…La sua faccia
era un cielo dal quale sole e luna
illuminavano, nel loro corso,
questa piccola “O”, la nostra terra. […]
…Le sue gambe
stavano a cavalcioni sull’oceano,
ed il suo braccio, sollevato in alto,
come un cimiero sovrastava il mondo;
se parlava agli amici, la sua voce
s’intonava nel modo più armonioso
con l’armonia delle celesti sfere;
ma se voleva sgomentare il mondo
e squassarlo, era un tuono fragoroso.
La generosità di quel suo cuore
non conosceva inverno: era un autunno
che diveniva sempre più ferace
col mieter dei raccolti;
i suoi piaceri eran come i delfini:
mostravano scoperto il loro dorso
sull’elemento nel quale vivevano;
camminavano con la sua livrea
corone grandi e piccole;
e regni ed isole eran come spiccioli
cadutigli di tasca…

E’ un pezzo poetico bello e complesso. Shakespeare ha inventato questa sequenza da solo. Non ha preso spunto da Plutarco. Ma la questione è complicata e necessita un’analisi più approfondita.

Il punto cruciale del discorso di Cleopatra è che ora sta immaginando, ora che il potere è perso, come sarebbe stato se Antonio fosse diventato imperatore. La tragedia di Antonio sta proprio nel fatto che non è mai riuscito a diventare imperatore. È stato solo uno dei triumviri. Due di loro, Antonio e Ottaviano, organizzano presto di sbarazzarsi di Lepido. Quando l’opera finisce, l’unico che resta è Ottaviano che diventa così il primo imperatore di Roma.

Così Cleopatra sta immaginando un ipotetico Antonio diventato imperatore del mondo intero, diventato un figura quasi divina, immaginandolo attraversare l’oceano e avere il mondo nelle sue mani.

Essere come un “tuono fragoroso” lo paragona a Giove, capo di tutti gli dei. L’idea che un imperatore o un monarca fosse come un dio era potente ai tempi di Shakespeare. Anche l’immagine che i “suoi piaceri eran come delfini” sta a significare che hanno superato l’elemente naturale in cui vivono. L’idea è che ci sia una potenza straordinaria che trascende l’elemento naturale, vale a dire che gli esseri umani sono normalmente creature della terra, non del mare, non dell’aria. Ma qui, Antonio è immaginato come un delfino che, con grazia, può attraversare l’aria, così come nuotare sotto il mare (nel mondo elisabettiano i quattro elementi – terra, aria, fuoco e acqua – sono molto importanti). Questa è l’immagine di Antonio come divinità che possiede la capacità di passare da un elemento a un altro. Poi, al culmine del discorso, abbiamo la sensazione di Antonio che “regala” regni e isole, come se fossero spiccioli. Il concetto è di grande magnanimità dell’uomo. Nell’opera c’è un forte contrasto tra lo splendore, la generosità, forse anche l’ostentazione di Antonio e Cleopatra da un lato e l’approccio apparentemente più ipocrita di Ottaviano dall’altro. In questo modo ci viene presentato Antonio, ma Cleopatra?